Palermo nei primi del Novecento: i mestieri scomparsi fra ambulanti e belle botteghe

Molti di questi lavori si sono estinti, altri invece si sono evoluti: un ruolo fondamentale l’ebbero gli ambulanti che "abbanniavano" la loro merce in giro per la città

Nei primi anni del ‘900, alcuni mestieri caratterizzavano la vita quotidiana. Molti di questi mestieri a Palermo si sono estinti, altri evoluti. Come abbiamo già detto i negozi si trovavano prevalentemente nella via Vittorio Emanuele, in via Maqueda e nei mercati rionali. Un ruolo fondamentale l’ebbero gli ambulanti.

Nelle vicinanze degli uffici pubblici si trovava lo scrivano. In quel periodo, la maggior parte dei popolani era analfabeta, perciò si ricorreva a lui per scrivere ad un parente carcerato, al parente soldato, la richiesta di un sussidio, una lettera alla fidanzata, per la concessione di un posto fisso etc.

Lo scrivano, benchè operasse in mezzo alla strada, aveva qualche sedia per i clienti in attesa. Lo scrivano era quasi sempre anziano, un tipo molto discreto, non raccontava i fatti dei suoi clienti. Ascoltava l’argomento in dialetto e lo scriveva in italiano. Quando sbagliava, arrotolava il foglio e ne prendeva uno nuovo.

Molti erano i mestieri ambulanti: l’Acquajiolo o Acquavitaro andava il giro con una piccola tavola dipinta alla maniera dei carretti siciliani, aveva una dozzina di bicchieri per versare l’acqua ai clienti, portava una quartara piena d’acqua e per un grano riempiva il bicchiere in cui versava un filo di zammù (anice). Non si stancava mai di "abbanniari": Chi l'aiu frisca, ma chi è jacciu? Risponde un altro: Tinitivi i renti, viriti ca vi carinu! Acqua! Acquajolu c'è, cu voli viviri? Atturrunata è! (Tenetevi i denti, state attenti che vi cadono! Acqua! L’acquaiolu c’è, chi vuol bere! Fresca è!).

Un altro mestiere ‘A cucchiarara (venditrice di cucchiai e mestoli. Era un mestiere che svolgevano le donne anziane. Non era ben vista dai ragazzi: qualche volta, infatti, le madri usavano ‘a cucchiara i lignu per fare ritornare alla ragione i figli indisciplinati. Anche lei bandiva con voce fioca i suoi prodotti: hajiu belli cucchiari p’arriminari! Accattativi i cucchiari pù stufatu! (Ho bei cucchiai per mescolare! Comprate i cucchiai per lo stufato!).

‘U caramilaru (venditore di caramelle) era sempre attorniato da uno stuolo di bambini e ragazzi. Vendeva pupatelli (biscotti rustici rivestiti di zucchero); ammazza panza (fichi secchi tagliuzzati, compressi ed avvolti da farina di frumento scura); cannulicchia (piccoli cannoli riempiti di ricotta). Ciò che faceva impazzire i bambini erano le caramelle di carruba. Avevano un forma cilindrica perché erano avvolte in una luccicante guaina di metallo che di volta in volta il calamilaru estraeva con un temperino offrendo il dolce con un gesto particolare.

Faceva il giro dei rioni popolari, specialmente nei vicoli del centro storico gridando: Ammazza-panzi, pupatelli, calameli! Chi ssù duci! Chi ssù belli (ammazza-pancia, pupatelli! Sono dolci! Sono Belli!). Era la voce che faceva impazzire di gioia i bambini.

L'ammola cuteddi (l'arrotino) che con la sua bicicletta particolare fornita di mola ad acqua si fermava nei quartieri popolari per arrotare coltelli e forbici. Spesso a questa attività allegava anche la riparazione di paracqua (parapioggia e ombrelli).

‘U piatta e pignati (venditore di piatti e pentole di terracotta) vendeva anche cantari (pitali da notte). ‘U conzalemme rattoppava i piatti ed i tegami di terracotta.‘U scuparu vendeva scope: Belli scupi hajiu! Accattativi i scupi! Che belli scupi Hajiu! (Vendo belle scope! Comprate le scope! Che belle scope!).

‘U stagnataru possedeva spesso una piccola bottega ma anche lui non disdegnava di fare questo lavoro per le strade. Le massaie facevano stagnare specialmente le quarare e le padelle per isolare il cibo dal rame della pentola ed evitare la tossicità del rame a contatto con gli alimenti. Con una piccola fucina a carbone ed un bastoncino di stagno spalmava tutta la superficie della padella.

‘U spidiciddaru (venditore di spiedini) che vendeva per pochi centesimi spiedi e spiedini per arrosto. Gridava: Haju spiticedda! Haju spita luonga! (ho spiedini piccoli! Ho spiedi lunghi!). Vendeva anche trappole in metallo per catturare i topi. ‘U bannituri (banditore) con un tamburo informava la gente della prossima apertura di un negozio oppure pubblicizzava i prezzi di un determinato negozio.

‘Un ‘catina curuni era il venditore di rosari da lui composti col un fil di ferro. A muscalora (ventagli per alimentare il fuoco dei fornelli). ‘U muscaloru, in estate era usato nei giorni afosi d’Agosto come un comune ventaglio per rinfrescarsi il viso dal caldo. Vendeva anche cappelli a falde larghe per gli uomini che lavoravano all’aperto. ‘U attaru acquistava i gatti per farne pelliccia. ‘U lattaru vendeva il latte a domicilio portando con se le mucche da mungere.

L’agghiaru vendeva l’aglio: C’è l’agghiaru! Accattativi l’agghi! Accattativi ‘na trizza d’agghia! Ci voli l’agghia pi vicini!. ‘U luppinaru vendeva lupini. In un avambraccio portava il cesto alto dove teneva i cuppitelli (coni di carta). Qualcuno usava le grandi foglie per adagiare i luppina. Il suo modo di vendere era: C’è ‘u luppinaru! Accattativi i luppini!.

U rina d’argentu vendeva sabbia bianca (rina d’argentu) per la pulitura di vari oggetti di metallo da cucina. Haju rina d’argentu! Va stricativi ‘u ramu! (Ho sabbia d’argento! Andate a pulire il rame) per due centesimi a pugno. Vendeva anche la “rina di marmuraru“ (sabbia da marmista).

In prossimità delle piazze o dei luoghi più ricchi si trovava ‘allustrinu (lustracarpe). Per pochi centesimi lucidava le scarpe. Aveva sempre le mani sporche di colore nero. ‘U cirinaru vendeva fiammiferi; ‘u sulichianeddu (riparava le scarpe); ‘U pizzaloru (cenciaiolo) tra i vicolo della città pezze vecchie e li metteva nella cesta che portava sulle spalle. I venditori di babbaluci (lumache), verdura di montagna ed origano, facevano chilometri per reperire la loro merce, inerpicandosi nelle colline e strapiombi che circondano Palermo.

Nei mesi invernali si vedeva ‘u paracquaru (riparatore di ombrelli). Passava anche l’ammolacudeddi (arrotino). Erano tutti mestieri umili e molto faticosi. Gli ambulanti giravano le vie ed i vicoli della Città e spesso la sera non avevano guadagnato l’indispensabile per cunzari a tavula (acquistare il mangiare). Molti di questi mestieri, sono scomparsi, altri evoluti. Oggi è raro che tra cliente e negoziante s’istauri un rapporto d’amicizia.

Fonte Balarm.it